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Treviglio a fine Ottocento

Come era Treviglio alla fine del 1800, quando Ermanno Olmi vi ambientò l'Albero degli zoccoli? Ecco la descrizione che Piero Perego e Ildebrando Santagiuliana, storici locali, ne fanno nel loro libro Storia di Treviglio.

« Nei limiti posti dalle condizioni economiche, Treviglio ampliava la sua area urbana, ne migliorava la struttura e provvedeva a quelle attrezzature che le nuove esigenze di vita richiedevano.
Il vecchio centro rimaneva praticamente invariato nelle sue linee generali e forse l'opera più notevole che esso registrava consisteva nell'abbattimento dei portici di Santa Marta, non tanto per aver ciò posto in diretto contatto con la piazza il dedalo di casupole, che allora copriva l'area tra Via Verga e la circonvallazione, quanto perchè da quella prima apertura sarebbe nata l'esigenza di risanare, ridedificandola, tutta l'area stessa (...)

(...) Il Palazzo Comunale si alzava di un piano nel 1873 e incorporava definitivamente i vecchi fabbricati di San Giuseppe e dell'Immacolata Concezione, non più carceri ormai, e tutto l'abitato si rivestiva di qualche modernità sotto la luce a gas del 1880 e sotto quella elettrica del 1896. (...)
L'elettricità era prodotta da una dinamo, azionata a mezzo di un salto di acqua della roggia in via Cavallotti. Dava illuminazione alle vie della città e forza motrice a molti opifici, tanto che ben 36 officine chiesero, per autonomia, di poter sfruttare i saldi d'acqua delle nostre rogge.

Scomparivano le antiche bottegucce anguste e buie per dar luogo a negozi più vistosi, sorgevano nuove case d'abitazione, mentre la circonvallazione sfoggiava villette e giardini.
Il viale della stazione centrale si popolava di costruzioni e, con le quattro file di ippocastani e l'immediata vicinanza dei prati, diveniva la passeggiata serale d'obbligo per i trevigliesi. Anche la via dal Rivellino alla stazione ovest, rimodernata nel 1861, accoglieva qualche edificio (è in una cascina in questa via che abitava la nonna di Ermanno Olmi, ed è qui che il regista ha la sua conoscenza del mondo rurale trevigliese, N.d.A.), mentre le case operaie del Portaluppi si stendevano in rettilineo nella nuova via, che avrebbe avuto il suo nome e che si apriva fra gli edifici nuovissimi del Collegio salesiano, eretto nel 1894, e delle scuole comunali, inaugurate nel 1899 (...)

(...) Furono di quegli anni: l'acquedotto (1878), che fece scomparire in parte i numerosi pozzi pubblici sparsi per Treviglio. (...) Nel 1897 nasce a Treviglio, in via Milano, località Pezzoli, la fabbrica del ghiaccio artificiale. (...) Così il macello comunale, che tolse l'uso antico di macellare in pubblico nelle beccherie. (...)
Rimanevano però, accanto all'impegno di modernità, la pratica e il gusto di usanze antiche, come quella delle "grida", che dall'alto del campanile scandiva ai quattro venti i turni delle irrigazioni o talune comunicazioni di carattere generale (...)

(...) Sono di questo tempo anche fatti di grave malcostume.
Usanze millenarie, come "l'albero di maggio", tante volte vietato e tante volte eretto nell'ultima notte di aprile a celebrare, con inconsapevole rito pagano, il ritorno della primavera, e usanze gentili, come quella che recava il dono di un fiore nel giorno della Madonna delle Lacrime alla ragazza prescelta.

Consuetudini infine che punteggiavano di minute scadenze il giro dell'anno, riportando nell'ambito familiare un ordine antico di lavori, di divertimenti, di cibi tradizionali e in quello pubblico numerose celebrazioni rionali o cittadine, delle quali rimane oggi solo la fiera della Madonna delle Lacrime, immutata nella sua configurazione, anche se i trevigliesi hanno abbandonato la maggior parte delle consuetudini che l'accompagnavano, prima fra tutte quella di considerare il suo culmine, cioè il 28 febbraio, come ul giorno d'obbligo per indossare gli abiti di primavera e il cappello di paglia.
Tradizionale era forse anche la ricerca del divertimento, che portava i "signori" e la borghesia commerciante al veglione del Teatro Sociale, sagra mondana della città, mentre il popolo aveva i suoi balli e i suoi spettacoli al Teatro Prandina, in via Beltrame Buttinoni (...)

(...) Il che non reca la conlcusione di una Treviglio festaiola, poichè ciò era il contrappeso di giornate laboriose e abitualmente parche, di cui vediamo quasi una immagine nella folla che si affrettava lungo i marciapiedi a mezzogiorno o vi indugiava nell'ora del tramonto, lasciando le vie deserte nelle altre ore del giorno: folla in gran parte paesana, di contadini e oprai calzati di zoccoli e avvolti nel mantello nero, di "filandere" avvolte nello scialle.

Una folla, diciamo: una popolazione che certamente possedeva un suo equilibrio, ma che a tanta distanza di tempo, ci sembra un poco contradditoria, poichè accanto a una sensibile scarsezza di senso civico nutriva un diffuso campanilismo e, mentre soffriva di un certo complesso d'inferiorità nel giudicare la propria collettività, recava nel carattere individuale una qualche presunzione, antica componente del carattere trevigliese.
Così come la stessa popolazione vediamo indugiare in stratificazioni sociali superate, giacchè fra i "signori", facilmente rapportabili a una media borghesia di oggi, e il popolo lavoratore, rimaneva sentito un distacco, che non era solo di mezzi economici, mentre fra il contadino e l'abitante del centro urbano, cioè fra il "vilàn" e il "pisastil", correvano una diffidenza e una consuetudine di rancore, non di rado sottolineate dall'uso offensivo del falcetto. »

(Piero Perego, Ildebrando Santagiuliana. Storia di Treviglio. Parte Seconda. Edizioni Pro Loco Treviglio, 1987)